Padre Giuseppe Minghetti parla dei genocidi in Burundi e Ruanda
E’ proprio un "fidei donum a vita" come potremmo definire padre Giuseppe Minghetti, ad aprire colle sue drammatiche testimonianze il Corso Missionario Interdiocesano 2016 iniziato mercoledì 4 maggio in Seminario Arcivescovile.
E’ anche l’esordio di don Patrizio Maggioni come Direttore del Centro Missionario Vercellese a presiedere a questo ormai tradizionale appuntamento per gli amici delle missioni. L’evento registra anche la costante presenza e partecipazione di don Marco Arnolfo che da quando è a Vercelli ha sempre trovato il modo e il tempo per intervenire alla tappa vercellese del corso interdiocesano.
La presenza di don Patrizio, appena tornato dal viaggio in Africa, è sottolineata dalla presenza di numerosi volontari del suo gruppo che assicurano un servizio ed un’organizzazione inappuntabile e soprattutto un catering per il tradizionale rinfresco che non ha uguali nella memoria dei partecipanti.
L’incontro vero e proprio è preceduto e concluso da una preghiera e riflessione comunitaria arricchita da semplici simbologie missionarie.
La relazione di padre Minghetti è una rievocazione di quei fatti tremendi con tutto il patos che l’esserne stato partecipe e testimone gli hanno lasciato nel cuore pur a distanza di anni. E a distanza di anni si cerca di rispondere a domande pesanti come: perchè è potuto succedere, cosa si poteva fare e non è stato fatto, oppure, cosa è stato fatto che non si doveva assolutamente fare? Domande a cui non è facile rispondere nemmeno oggi.
Di fatto l’antagonismo tra tutsi e hutu sembra essere un qualcosa di ancestrale che ha radici e testimonianza nella Bibbia stessa quando nella storia di Caino ed Abele si adombra il conflitto che ha percorso i secoli e che ancora oggi non è terminato tra agricoltori e pastori, tra stanziali e nomadi, tra residenti e migranti.
Come è potuto succedere in paesi che avevano, in Africa, la più alta percentuale di cristiani e di cattolici? Di fatto si è trattato di situazioni in cui il sentire razziale è stato più forte delle convinzioni cristiane. Padre Giuseppe ripete più volte che il sangue che è stato versato in quei giorni è anche sangue di martiri e che il sangue dei martiri è sempre fecondo. Trae padre Giuseppe dai suoi ricordi episodi precisi in cui tutsi e hutu, cristiani e quindi veri amici tra loro, si sono protetti a vicenda a rischio ognuno della propria vita. La memoria di quei popoli, purtroppo oggi ancora con fatica, arriverà comunque un giorno a scorgere nell’orrore di quei giorni queste scintille di vita e capirà che sono esse ad indicare la strada perchè questi scontri si attenuino e cessino del tutto.
Padre Giuseppe su questo versante della storia concreta delle persone è una miniera ricca, vibrante e pressochè inesauribile ma che si autolimita per lasciar spazio al dibattito dove vengono evidenziate le radici coloniali dell’inasprisi del conflitto tra le due razze. La monarchia tradizionale del paese aveva i suoi meccanismi ancestrali per tenere sotto controllo le tensioni tra i gruppi. Padre Giuseppe ricorda che nella regione c’è anche un altro gruppo razziale oltre i nilotici tutsi e i bantu hutu: i pigmei, che però sono infima minoranza sia in senso numerico che ad ogni altro livello, quasi a sottolineare quanto grande sia ancora il cammino cristiano da compiere nella regione dei grandi laghi africani.