Un cuore senza confini
L’epidemia di Covid si è portato via padre Giuseppe Minghetti. Aveva 87 anni.
Una vita intera spesa nelle missioni, per le missioni, per quella fedeltà al nucleo centrale del cristianesimo che sempre papa Francesco ci ricorda e che fu la rotta costante di padre Josè come era chiamato da tutti, bimbi, religiosi ed adulti nella sua ultima tappa missionaria in Bolivia, a Santa Cruz de la Sierra.
Padre Giuseppe partì, agli albori degli anni ’60, per il Burundi. La sua scelta per i più poveri ed i più deboli inizia di lì e non si interromperà più. Il fatto di aver scelto evangelicamente la parte più povera e debole lo porta, ad un certo punto, nel confinante Ruanda dove, ad un certo punto, si trova coinvolto nel conflitto che insanguina quel paese. Costretto a rientrare in Italia si dà subito da fare per soccorrere e trovare una sistemazione per i suoi ragazzi. La sua città lo accoglie e lo aiuta. Sono gli anni in cui Vercelli, diventa una città accogliente, con le esperienze della Bertagnetta e del Conccordia che coinvolgono decine di volontari, in cui le scuole elementari e le scuole materne vedono da un giorno all’altro inseriti bambini ruandesi in numerose classi e sezioni.
Poi anche questa tappa si conclude e padre Giuseppe riparte per la sua amata Africa. Per qualche tempo lavora e crea strutture di accoglienza per i poveri in Repubblica Centroafricana. Gli anni però avanzano e la sua sensibilità sacerdotale è insoddisfatta dalle difficoltà che incontra nell’imparare le lingue locali e quindi nel celebrare liturgia e sacramenti con la comunità. Affida le strutture di accoglienza nel frattempo messe in opera ad una congregazione di suore missionarie, ed ecco il grande balzo al di là dell’Atlantico. In Bolivia mette a frutto le conoscenze linguistiche della gioventù ed adatta il modello di accoglienza messo a punto in Africa alla realtà latina.
Chi scrive queste righe ha avuto la fortuna di stargli accanto come volontario ed ospite per alcuni mesi proprio verso la fine di questa sua ultima esperienza missionaria. Alla periferia di Santa Cruz de la Sierra padre Giuseppe crea, nei primi anni del 2000, una struttura di accoglienza per infanzia e gioventù abbandonata. La crea mettendo a frutto l’esperienza di una vita e la fedeltà al modello evangelico che sempre l’ha ispirato. Nella comunità di un ottantina di ragazzi sono accolti proprio gli ultimi, i diversamente abili. Per loro chiama a lavorare nella sua opera una fisioterapista, per loro costruisce una palestra riabilitativa dotata di tutte le strutture necessarie e per loro tiene i contatti con le strutture sanitarie della grande metropoli. L’intuizione è proprio quella di far capire al resto dei ragazzi accolti, e che pure stanno soffrendo per il totale o parziale abbandono da parte della famiglia, che c’è chi sta peggio di loro e che occuparci gli uni degli altri aiuta a risolvere i problemi di tutti.
La seconda grande intuizione di padre Giuseppe è nel volere la sua accoglienza aperta sia per i ragazzi che per le ragazze. Un Hogar (focolare) misto, una rarità in quel di Santa Cruz. Questa intuizione, che per certe fasce d’età può sembrare un azzardo, fa in modo che la struttura da lui creata divenga presto apprezzata per la possibilità di accogliere gruppi di fratelli e sorelle senza rendere ulteriormente penalizzante la separazione dalla famiglia. E grazie al fatto che lui viveva nell’hogar questo era davvero una seconda famiglia per tutti i suoi ospiti…
Alle famiglie povere ed in difficoltà padre Giuseppe dedica l’ultima opera che realizza in Bolivia: un asilo dove le mamme che per mantenere la famiglia devono uscire di casa per lavorare possono lasciare i piccoli durante il giorno.